Venerdì, 03 Febbraio 2012 21:13

Rwanda, il futuro e' arrivato in bici.

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Adrien e Gasore corrono per la nazionale di ciclismo ruandese. Uno è tutsi, l’altro hutu. Erano bambini ai tempi del genocidio. Pedalare sempre più forte è l’unico modo che hanno per lasciarsi il passato alle spalle.  Gasore Hategeka ha comprato la sua prima bicicletta nel 2008. Monomarcia, di fabbricazione cinese e visibilmente usata, costava 35mila franchi ruandesi, circa una sessantina di dollari. All’epoca Gasore aveva quasi vent’anni e lavorava da dieci per potersela permettere. Un tempo anche suo padre aveva una bicicletta. “Mi piaceva come funzionava, il suo meccanismo”, racconta Gasore, che non ricorda molto altro della sua infanzia. “Mio padre mi caricava sulla bici e mi portava con lui quando andava a lavorare nei campi. Dopo che è morto, ho continuato a pensare alla bicicletta. Era il mio sogno, non riuscivo a togliermela di mente”. Quando parla della bici, sembra riferirsi a un’entità quasi mistica: l’incarnazione di un ideale di autopropulsione. Gasore non sa con esattezza quand’è nato, quindi non sa se aveva nove o dieci anni nel 1997, quando suo padre è morto. Era un ubriacone, che non aveva neanche più i soldi per comprarsi da bere. Secondo Gasore sono state la sete e la tubercolosi a ucciderlo, ma non mi sembra sicuro neanche di questo. Nei suoi racconti c’è un’unica cosa certa sulla sua infanzia: “Mi sono dovuto arrangiare per sopravvivere”. Nel nordovest del Ruanda, tra le colline fredde e umide ai piedi dei monti Virunga, il terreno, nero di lava, è ideale per coltivare le patate. Così, da piccolo Gasore prese a girare per i mercati raccogliendo le patate di scarto. Nei giorni buoni gli capitava di trovare anche una banana o una cipolla. Se guadagnava qualche spicciolo, lo metteva da parte. Con il passare del tempo cominciò a trasportare le patate con una bicicletta di legno, una specie di triciclo preistorico formato da assi e ruote di legno modellate con il machete. Poi si unì ai facchini che caricavano i sacchi di patate sui camion. “C’erano dei ragazzi che affittavano le bici per imparare a usarle”, ricorda Gasore. “Quando avevo un po’ di soldi ne affittavo una e il proprietario della bici mi spingeva da dietro correndo”. In genere nelle campagne ruandesi non ci si sposta mai a più di un giorno di cammino da casa. Una distanza di circa venticinque chilometri, coperta principalmente in bicicletta. Pochi ruandesi possono permettersela, ma quando ce la fanno la spesa è facilmente ammortizzabile. Il giorno in cui Gasore ha comprato la bici ha usato i cinquemila franchi che gli restavano per iscriversi all’associazione locale di bici-taxi. Gasore preferiva trasportare merci piuttosto che persone. E se il tragitto era lungo, tanto meglio: gli piaceva passare il tempo osservando il paesaggio e sentendo la fatica fisica. Non ci sono molte pianure in Ruanda, e il nordovest del paese è tutto picchi e valli. Il villaggio di Gasore, Sashwara, si trova in uno dei punti più alti della strada principale, a 2.400 metri sul livello del mare. Da lì fino alla città di Gisenyi, al confine con la Repubblica Democratica del Congo, sono una settantina di chilometri, quasi tutti in discesa. Per Gasore, che spesso andava e tornava in giornata, la salita verso casa era la parte più bella. Quando racconta la sua storia Gasore non evoca mai il genocidio del 1994, la guerra civile che l’ha preceduto o il conflitto che l’ha seguito. Gasore è cresciuto tra violenze indescrivibili: quando il governo incitò la maggioranza hutu a sterminare la minoranza tutsi, nell’arco di cento giorni furono massacrate almeno 800mila persone. Altri milioni di persone, in gran parte hutu, dovettero poi fuggire dal paese. I familiari di Gasore erano hutu, ma lui non ne parla mai. Mi ha parlato solo delle sue sofferenze personali e della decisione di allontanarsene pedalando il più veloce possibile. La storia lo interessa per un solo motivo: vuole entrarci come ciclista. In Ruanda c’è una squadra nazionale di ciclismo, fondata nel 2007. I suoi atleti si allenano a Ruhengeri, quaranta chilometri a est di Sashwara. Gasore ci passava spesso con il suo bici-taxi e vedeva sfrecciare i corridori. Era abbagliato dai loro caschi e dalle loro tutine attillate azzurre, gialle e verdi con la scritta Team Rwanda. “Li inseguivo anche se avevo un passeggero a bordo”, racconta. Nella discesa verso Gisenyi riusciva a stargli dietro per tre minuti di fila. Ha cominciato ad allenarsi tutte le mattine prima del lavoro, andando su e giù per le colline. Per otto mesi si è allenato da solo, finché un giorno si è detto: “Posso farcela”. Innocent Sibomana, un ciclista della nazionale, è di Sashwara, come Gasore. Anche lui ha cominciato come conducente di bici-taxi e ha incoraggiato il suo amico a partecipare ad alcune gare locali. Gasore si è fatto notare a livello distrettuale e regionale e alla fine il Team Rwanda gli ha regalato una bici da corsa. Nel giugno del 2009 l’allenatore l’ha fatto entrare nella squadra. Nel febbraio del 2010 il Team Rwanda ha partecipato al Tour du Cameroun, gareggiando contro squadre africane ed europee. Nelle prime tappe Gasore ha corso discretamente. Al terzo giorno, però, ha forato sulla ghiaia e ha perso tempo ad aspettare la macchina della squadra che stava arrivando con la ruota di scorta. Raggiunto il gruppo, ha forato di nuovo sul ciglio della strada. A quel punto, dopo aver raggiunto di nuovo il gruppo, si è innervosito. Gli sembrava che i suoi compagni di squadra non corressero con vera convinzione. Durante gli allenamenti Gasore aveva imparato che doveva sempre rimanere insieme al gruppo, almeno fino all’ultimo tratto. Ma, nel bel mezzo della gara, in mezzo a un centinaio di altri ciclisti, ha pensato che quella regola non aveva senso. “A un certo punto sono partito”, ricorda. Su una salita ripida è scattato in avanti, distanziando tutti. Si è guardato indietro esitante, ma poi ha sentito delle grida di incoraggiamento che l’hanno convinto a impegnarsi ancora di più. Non ha vinto il Tour, ma quel giorno è stato il primo ruandese a salire sul gradino più alto del podio in una gara professionistica internazionale. Gasore è un uomo attento e pacato, possente più che grosso. Chi gli sta vicino può avvertire la selvatica solitudine di un bambino, cresciuto in mezzo ad altri vagabondi, che alla fine ha saputo trovare la sua strada. La prima volta l’ho incontrato nella primavera del 2010 a Ruhengeri. È qui che l’allenatore statunitense del Team Rwanda, Jonathan Boyer, detto “Jock”, vive con i suoi animali: il cane Zulu, il gatto Kongo e il corvo Jambo. Ogni settimana la squadra si riunisce a Ruhengeri per tre o quattro giorni di allenamento. Gasore abita vicino ma alcuni suoi compagni devono percorrere più di 160 chilometri per venire fino a qui. Man mano che arrivano, s’infilano sotto la doccia calda (un lusso mai visto nelle loro case), chiacchierano un po’, fanno regolare le bici dal meccanico, aggiornano la loro pagina Facebook o guardano le foto delle gare sui computer di Jock. Per molti ciclisti Jock è un padre. Lui li chiama “i suoi ragazzi”. Il Ruanda è noto per i massacri del passato recente, ma ai suoi atleti Jock non chiede nulla di più di quello che vogliono raccontargli. In fondo diciassette anni fa erano solo dei bambini. Tutti, hutu e tutsi, sanno che le loro identità li hanno divisi in passato e che quelle divisioni sono presenti ancora oggi. Ma loro vogliono farsi conoscere per un altro motivo. Quasi tutti gli atleti del Team Rwanda che ho conosciuto hanno cominciato guidando i bici-taxi o facendo gli scaricatori. Secondo Sibo, non c’è niente di strano: “Dopo la guerra tutti si sono rimboccati le maniche. Lavorare sodo è l’unico modo per lasciarsi il passato alle spalle”.Una mattina a Ruhengeri Jock e la sua fidanzata, Kimberly Coats, preparano la colazione per gli atleti, distribuendo grosse scodelle piene di cibo. Poi escono tutti per una pedalata di riscaldamento, dieci chilometri di salita lungo la strada principale. Jock li affianca in moto, con me seduto dietro di lui. Dopo un po’ divide i ciclisti in tre squadre e gli dice di gareggiare tra loro fino a un traguardo a circa cinquanta chilometri di distanza. È quasi tutta salita. In palio ci sono duemila franchi per ogni componente della squadra che vince. In un paese dove si guadagnano meno di ottocento franchi al giorno, mi spiega Jock, la somma “è un buon incentivo”. Il percorso si snoda tra villaggi di contadini, piantagioni di tè e campi di fagioli, carote e mais. I ciclisti passano vicino a pastori con lunghi bastoni, a squadre di condannati ai lavori forzati, a barbieri ambulanti e a scolarette con il grembiule che saltellano cantando. Comincia a piovere. Jock esorta i corridori a tenere duro. Alcuni bambini corrono sul ciglio della strada lanciando grida di incoraggiamento fino a che, sfiniti, si buttano per terra ridendo. I ciclisti sono una presenza familiare da quelle parti, ma sembra esserci una distanza incolmabile tra gli atleti (con le loro bici costose e il loro allenatore che prende i tempi con l’iPhone) e il mondo che attraversano. Una distanza incolmabile. Solo cinque anni prima Jock Boyer viveva con la madre a Carmel, in California. Da piccolo sognava di fare il veterinario per i grandi animali africani e a vent’anni, nel 1975, aveva viaggiato per un mese in Sudafrica, Rhodesia (poi Zimbabwe dal 1980), Mozambico, Swaziland e Lesotho. Però, quando all’inizio del 2006 il suo amico d’infanziaTom Ritcheygli ha chiesto se voleva partecipare a un’avventura ciclistica in Ruanda, Jock in un primo tempo ha rifiutato. Tom Ritchey è un noto disegnatore e costruttore di bici (è uno degli inventori della mountain bike), che con il suo lavoro ha fatto molti soldi. Ha scoperto il Ruanda grazie a un imprenditore statunitense, Dan Cooper, che ha aiutato le aziende Costco e Starbucks a entrare nel mercato locale del cafè. Ma all’epoca i raccolti venivano ancora trasportati a piedi o in bicicletta. Senza mezzi più rapidi, il cafè finiva per marcire e l’economia locale stagnava. Per rendere il processo più efficiente, Tom ha progettato una bici da carico più lunga, in grado di trasportare grossi sacchi di cafè. Lui e Dan hanno deciso di far costruire le bici negli Stati Uniti e poi portarle in Ruanda. Hanno fondato un’organizzazione non profit, Project Rwanda, e per promuoverla hanno deciso di organizzare una gara ciclistica, la Wooden bike classic. Ed è qui che è entrato in scena Jock. Jock condivide con Tom la passione per le bici e la fede cristiana. Ma fino a pochi anni fa non sapeva dove fosse il Ruanda. Né sapeva molto del genocidio. La sua vita era il ciclismo. Aveva cominciato a gareggiare e a vincere a quattordici anni, e a diciassette era partito per l’Europa. Nel 1981 era stato il primo statunitense a partecipare al Tour de France. È considerato un solitario: legge la Bibbia, non beve alcol e, cosa ancora più insolita tra i carnivori ossessionati dalle proteine che affollano il mondo del ciclismo, è vegetariano. Ha abbandonato il professionismo nel 1987, a 32 anni, dopo aver vinto più di quaranta titoli. La squadra, però, aveva cominciato a funzionare. Due anni prima, nel 2008, Adrien aveva partecipato di nuovo alla Cape Epic, questa volta con un compagno di squadra ruandese, ed erano arrivati al 26° posto. Poi era tornato a casa e aveva vinto il Tour of Rwanda. Poco dopo è stato ingaggiato dalla più importante squadra africana, la sudafricana Mtn Cycling. Anche il gruppo continuava a crescere: ogni settimana agli allenamenti si presentavano fino a sedici corridori. Gran parte dei finanziamenti arrivava ancora dagli Stati Uniti, ma il ministero ruandese della gioventù, dello sport e della cultura aveva cominciato a pagare alcune trasferte e a finanziare in parte il Tour of Rwanda. Il Tour era diventato un grosso affare. Nel 2009 l’Uci l’ha inserito tra le gare del circuito internazionale, assicurandogli visibilità e premi più alti. Quell’anno hanno partecipato squadre di dodici paesi africani ed europei. I ruandesi si assiepavano lungo le strade per seguire la gara e fare il tifo per gli atleti locali. Nella tappa finale, a Kigali, Adrien è arrivato terzo, dietro due marocchini. La città era così affollata di spettatori che la presenza della polizia è stata triplicata per fare in modo che i ciclisti non fossero intralciati. Si stima che circa tre milioni di ruandesi abbiano seguito il giro. Era una dimostrazione del fatto che il ciclismo aveva sempre più successo e gli atleti del Team Rwanda stavano diventando famosi. L’alto tasso di natalità del Ruanda (una famiglia in media ha più di cinque figli), unito al calo della mortalità infantile, ha causato un’esplosione demografica. Secondo il governo i ruandesi sono quasi undici milioni (un aumento del 100 per cento dai tempi del genocidio) e più della metà hanno meno di vent’anni. Confrontato con questi numeri, il successo di un gruppetto di ciclisti può sembrare poca cosa. Ma i ragazzi del Team Rwanda sono consapevoli di essere diventati una fonte d’ispirazione per molti. La maggior parte dei ruandesi, hutu o tutsi, afferma di voler dimenticare il passato. Subito dopo il genocidio ci si chiedeva in che modo un popolo diviso da una violenza così brutale potesse tornare a convivere. Il Fronte patriottico ruandese, il partito al potere dal 1994 a cui appartiene il presidente Paul Kagame, ha dato una risposta apparentemente semplice: ora siamo tutti, e prima di tutto, ruandesi. Questa è la dottrina alla base del nuovo stato, e tutte le sue istituzioni e iniziative devono servire a difenderla. Lo sterminio di quasi un milione di persone da parte dei loro connazionali è un evento che condiziona la storia di un paese per molte generazioni. L’obiettivo, quindi, era racchiudere una nazione a pezzi in una nuova identità collettiva. Questa identità ha il vantaggio di essere autentica: tutti i ruandesi, infatti, condividono nazionalità e lingua. Ma ha anche uno svantaggio: come tutti i diktat, può affermarsi solo a patto di dimenticare o nascondere altre verità. Il paradosso è che per lasciarsi il genocidio alle spalle, i ruandesi lo tengono costantemente davanti ai loro occhi, come un avvertimento delle minacce legate a un’identità divisa. La generazione dei più giovani, segnata dalla storia ma non direttamente responsabile del genocidio, non vuole limitarsi a coesistere e a seppellire il ricordo del massacro. I giovani sentono il bisogno di valorizzare l’identità ruandese. Superare il genocidio è lo scopo ufficiale del governo, che qualche anno fa ha cominciato a indicare lo sterminio con l’espressione “il genocidio dei tutsi” (il trauma delle guerre civili che hanno preceduto e seguito il genocidio non riceve lo stesso tipo di riconoscimento nelle cerimonie ufficiali, e non c’è ancora un bilancio delle loro vittime). Il governo ha anche promulgato leggi che proibiscono in generale tutti i discorsi “divisionisti”, vietando qualunque forma di espressione che potrebbe essere interpretata come incitamento all’odio tra etnie. A queste leggi si aggiungono, da un lato, il tabù sulla responsabilità degli hutu, dall’altro un’intima sensazione di vergogna collettiva. Tutto questo soffoca l’espressione del trauma vissuto dalla comunità hutu. Il timore, inoltre, è che paragonare l’esperienza degli hutu e dei tutsi possa sembrare una negazione del genocidio. Ed è un timore fondato, perché l’ideologia del “potere hutu” alla base del genocidio non è ancora scomparsa dall’orizzonte politico. Ma promuovendo la neutralità etnica, il governo crea nuova confusione. Chiedere a un ruandese a quale etnia appartiene è sempre stata considerata una domanda maleducata, ma oggi è diventato un tabù, se non un reato. Naturalmente i ruandesi sanno chi è hutu e chi tutsi e, come mi ha confessato un collaboratore del presidente, “se sentisse quello che diciamo gli uni degli altri ogni sera tra le mura di casa, dovrebbe arrestarci tutti”. Perfino gli stranieri spesso non hanno bisogno di informarsi sull’appartenenza etnica di una persona: se viveva in Ruanda nel 1994 e parlando dei suoi familiari non dice che sono sopravvissuti al genocidio, molto probabilmente è un hutu. Succede lo stesso nel Team Rwanda. Nella vita quotidiana della squadra, l’identità etnica sembrava irrilevante. Ma di fronte al passato emergono delle differenze: mentre i tutsi evocano con disinvoltura l’evidente rapporto tra le sofferenze di allora e il loro presente, i compagni hutu sono molto più riservati. Quando ho chiesto a Gasore se ricordava il genocidio e le guerre, che non aveva mai menzionato nei suoi racconti, mi ha risposto: “No, all’epoca ero troppo piccolo”. In realtà, aveva la stessa età di Adrien. Dopo il genocidio gran parte della popolazione hutu del nordovest fuggì nella Repubblica Democratica del Congo e vi rimase fino alla fine del 1996, quando Kagame incaricò l’esercito di riportarli indietro e di trovare chi si nascondeva. Gasore mi ha detto di non ricordare nemmeno questo. Negli anni successivi le forze superstiti dell’esercito del “potere hutu” e delle milizie che avevano commesso il genocidio tornarono in Ruanda seminando il terrore nel nordovest del paese. La ribellione fu soffocata dopo due anni. A pagarne le spese fu soprattutto la popolazione civile, intrappolata tra i due campi e accusata da entrambi di collaborare con il nemico. Furono uccise decine di migliaia di persone e centinaia di migliaia fuggirono. Nella squadra ci sono altri tre ciclisti hutu che, come Gasore, sono cresciuti nel nordovest del Ruanda nello stesso periodo, e mi hanno raccontato senza esitare le sofferenze vissute dalle loro famiglie. Sibo, il vicino di Gasore a Sashwara, ricorda di essere scappato con la famiglia nel 1994 e di aver camminato fino alla Repubblica Democratica del Congo, portandosi dietro solo una tanica di olio. Un altro ragazzo ha trascorso due anni nel campo profughi di Mugunga, vicino a Goma, poi è tornato nel suo villaggio, ma è dovuto fuggire di nuovo a causa della guerra. In quel periodo ha perso un fratello. Un terzo ciclista mi ha detto che i ribelli hutu hanno ucciso suo padre nel 1997 e che la sua famiglia era stata salvata dai soldati governativi.


Il ciclismo non è uno sport facile da seguire. Nelle discese gli atleti sfrecciano a ottanta chilometri all’ora. Nelle salite, se si rimane fermi lungo il percorso mentre i ciclisti passano pedalando convulsamente, è difficile capire come sta andando la gara. Eppure, nel novembre del 2010, durante tutto il Tour of Rwanda le folle ai lati del percorso sembravano infinite e, a giudicare dagli schiamazzi quando passavano i ciclisti, erano soddisfatte dello spettacolo. In quell’occasione ho chiesto alla madre di Adrien se pensava di andarlo a vedere, ma mi ha risposto di no: “Passerà così rapidamente che nemmeno lo riconoscerei”. Non vedeva il figlio da un anno, e anche se Adrien era tornato in Ruanda da due settimane, si erano sentiti solo al telefono. “Sono venuto per la gara”, mi ha detto Adrien. “Se vedessi la mia famiglia, non mi concentrerei. Preferisco finire la gara e poi andare a trovarli”. Era inflessibile. E fragile. Quando prima del Tour abbiamo chiacchierato sulla veranda dell’albergo, mi ha detto che non aveva voglia di correre a Rwamagana, il suo villaggio natale. “Per me è difficile spingermi a est”, mi ha spiegato. “Penso alla casa di mia nonna, dove sono stati tutti uccisi, e riaffiorano i ricordi”. Un giorno, allenandosi, era passato da quelle parti e aveva visto che la casa della nonna era stata distrutta. “Comincio a ripensare a tutti quegli eventi e cerco di pedalare il più in fretta possibile per allontanarmi. Ma non mi escono più dalla testa”. È stato per un attimo in silenzio, poi ha aggiunto: “Il problema, soprattutto quando vinco una gara, è che tutti sono circondati dalle loro famiglie, e io non ho nessuno”. Ha chinato la testa, è scoppiato a piangere, poi è corso via dalla veranda. In testa al gruppo Adrien è arrivato quinto il primo giorno del giro, e il giorno dopo era terzo. La quarta tappa era la strada di montagna lunga e impegnativa che collega Kigali e Gisenyi. Durante la prima ora, in una discesa ripida, la bici di un atleta keniano si è rotta e il ciclista è volato sopra il manubrio andando a sbattere contro uno dei ruandesi, che si è rotto la caviglia. Poco dopo Gasore, che era rimasto indietro, è caduto sulla ghiaia e si è sbucciato l’avambraccio destro e la mano sinistra. “Quando sono in coda, cado sempre”, ha detto. Io ero a bordo di una delle moto della squadra e abbiamo raggiunto Adrien subito dopo Ruhengeri, dove comincia la salita più ripida. La prima volta che aveva partecipato al Tour, sette anni prima, aveva pensato di abbandonare proprio in quel punto. Ora, invece, era in testa. Il paesaggio collinare davanti a noi è cambiato leggermente, e ho visto tre ciclisti che stavano raggiungendo una cima a circa un chilometro e mezzo da noi. Non c’erano altri atleti ruandesi in vista, ma quando sono passato vicino ad Adrien ha cominciato lentamente a staccarsi dal gruppo. Non si stava sforzando. Per chilometri ha continuato la salita sospeso fra i tre atleti in testa e il resto dei corridori, finché non è stato certo che quelli dietro di lui non avrebbero potuto raggiungerlo. A quel punto ha scatenato la sua forza, e per quasi venti minuti è salito da solo, al massimo della velocità, fino a raggiungere i tre che lo precedevano. Uno dei tre ha rallentato e Adrien è passato in testa. Nei villaggi piccoli e impervi lungo la strada si erano riunite folle rumorose di spettatori, e ogni tanto qualcuno s’illuminava, felice, riconoscendo la maglietta ruandese in testa. L’aria si è rinfrescata mentre passavamo accanto ai vulcani, e il cielo è diventato basso e cupo. A mezzogiorno era nero, e sembrava quasi di poterlo toccare. Quando ha cominciato a piovere, mi sembrava di essere dentro a una nuvola. Poi, proprio mentre attaccavamo la lunga discesa finale verso Gisenyi (trenta chilometri con novecento metri di dislivello), è scoppiato il temporale. A cinquanta chilometri all’ora, la pioggia era pungente. A ottanta, ho creduto che piovessero frustate, e indossavo dei pantaloni lunghi e una giacca a vento, oltre ad avere il casco con la visiera. Con la tuta da corsa, Adrien era come nudo. Probabilmente non vedeva nulla. Eppure cercava di andare ancora più veloce. È rimasto in testa fino alle porte di Gisenyi, ha perso qualche secondo subito prima del traguardo, ma l’ha tagliato alzando i pugni in segno di vittoria. Conosceva i tempi degli altri ciclisti nelle varie tappe, e pensava di averli battuti. I responsabili dovevano fare i calcoli, così Adrien, sguazzando nella pioggia, è andato a sedersi sotto un tendone. L’operazione è stata lunga, e intanto continuava a diluviare. Ma quando gli altoparlanti sono tornati in vita, Adrien ha scoperto di avere ragione. Aveva vinto. È saltato su con un sorriso raggiante e Kimberly Coats ha tirato fuori il cellulare per scattargli una foto. Ma nel giro di un attimo, il tempo di inquadrarlo, il viso di Adrien ha assunto un’espressione di estrema solitudine. Il giorno dopo, tornando a Kigali, Adrien è riuscito a mantenere il primo posto. I suoi fan erano scatenati e lui non la smetteva di sorridere. Ma ce l’aveva un po’ con i compagni di squadra: per due giorni aveva vinto per loro, ma loro non l’avevano aiutato affatto. Anche durante il resto del giro sono rimasti assenti. Adrien è sceso in seconda posizione, poi in settima, infine in ottava, ed è lì che ha tagliato il traguardo, cinque minuti dopo il campione eritreo. Ora che la gara era finita, doveva andare a trovare sua madre. Non sono riusciti a stare insieme molto tempo: da quando ha messo piede in casa, è arrivato un fiume di conoscenti e perfetti sconosciuti, tutti sorrisi e salamelecchi, che chiedevano di essere ricevuti per potergli spiegare i loro problemi e dirgli in che modo avrebbe potuto aiutarli. Adrien si è rifugiato a Kigali, dove ha una piccola casa, e dove sta meglio: “Le persone non sanno dove vado, cosa faccio o dove vivo. Invece quando sono a Rwamagana mi fanno un sacco di domande e chiedono soldi. Qui mi sento al sicuro, lontano dalle seccature”. “Ai poveri non piace vedere un altro povero che ce la fa”, mi spiega Jock. “Quando un ciclista torna a casa dagli Stati Uniti, dal Camerun o dal Sudafrica, è assalito da una valanga di persone che gli chiedono soldi”. Queste pressioni compromettono la concentrazione della squadra. “I miei corridori sono sempre presi di mira con le richieste di soldi, anche durante le gare”, mi racconta Jock. “Per loro è una continua battaglia”. Per gli standard locali, i ciclisti guadagnano bene. Per incoraggiare il lavoro di squadra, Jock mette insieme i premi e poi li distribuisce tra gli atleti che partecipano. Se a quello si aggiungono lo stipendio e i bonus del ministero dello sport a chi rappresenta il Ruanda nelle competizioni all’estero, i più bravi della squadra finiscono per guadagnare almeno seimila dollari all’anno, dieci volte più di quanto guadagnassero prima di entrare nel Team Rwanda. La tradizione vuole che un ruandese, se raggiunge un livello minimo di benessere, aiuti i parenti più bisognosi. Ma la definizione di “parenti”, in quel caso, può diventare incredibilmente ampia. Se hai successo in Ruanda di colpo tutti cominciano a chiamarti fratello, zio, cugino o, per far passare bene il messaggio,muzungu. Alle prese con rette scolastiche, cibo, vestiti, spese per la casa, e con le continue emergenze di salute o i decessi nell’universo familiare, i ciclisti sembrano tutti dirigere una fondazione privata. Per proteggere il loro capitale investono in piccole attività e costruiscono case dove andare a vivere con la famiglia. Oggi, quattro dei cinque componenti della formazione originale hanno una casa nuova. Eppure uno di loro di recente ha detto a Jock: “Non importa quanto guadagniamo, quanti soldi ci dai, la nostra condizione non cambierà mai”. Diverse volte, parlando dei suoi ciclisti, Jock mi ha detto: “I ruandesi sono dei grandi scalatori”. Ma la spirale della povertà potrebbe rendere la scalata verso il benessere una fatica di Sisifo. Se chiedete ad Adrien chi è la sua ragazza, lui risponderà “la mia bici”. Ama anche il suo paese ma non vuole rimanere a viverci finché è nel mondo del ciclismo. “Quando ho dei soldi, cerco di mandarli ai miei parenti. Ma quando torno a casa scoppia un dramma, ripenso a tutto quello che ho visto in Ruanda, riaffiorano i ricordi, la mia mente non è serena. Quando sono lontano dal mio paese, posso concentrarmi sul ciclismo. Quando avrò finito, tornerò in Ruanda. Ma per ora mi serve la concentrazione”.

Fonte: Philip Gourevitch,giornalista Statunitense del “The New Yorker”




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